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I furbetti del parlamentino

L’acqua sporca dei furbetti e la democrazia parlamentare da tutelare

Un episodio che danneggia il Paese, rischia di orientare il referendum e distrae dall’economia da far ripartire fuori dall’assistenzialismo. E Conte...

L’acqua sporca dei furbetti e la democrazia parlamentare da tutelare

Anche noi abbiamo accumulato audience con la puntuale cronaca dei “furbetti del parlamentino” per evocare la fortunata frase di uno sfortunato Stefano Ricucci, l’immobiliarista odontoiatra di San Cesareo che ormai diversi anni fa ballò poco più di una sola estate a cavallo tra le operazioni sulla Bnl, l’ardito attacco al Corriere della Sera e il matrimonio all’Argentario con Anna Falchi, subito ribattezzata “Lady Finanza”. Ricucci definiva se stesso e i suoi compagni di strada “furbetti del quartierino”, dimostrando che malgrado come outsider totale fosse destinato alla sconfitta conservava buonsenso, e anche qualche immobile di pregio. Le cronache dei deputati furbetti che hanno intascato i 600 euro destinati alle partite Iva in difficoltà causa Covid purtroppo vanno al di là del deprecabilissimo episodio che, per quanto lecito a norma di legge sbagliata (che nella fretta o nell’ignavia non aveva fissato tetti di reddito), è un clamoroso autogol politico e morale e dà dell’Italia, comunque tuttora tra i primi dieci paesi industriali del mondo, una immagine pessima che va ben oltre il danno del tutto irrilevante di qualche migliaio di euro e investe direttamente il negoziato con l’Europa sui progetti da finanziare con i debiti a tasso favorevole del Recovery Fund.

 

Il tutto per due motivi: il primo è l’intreccio con il referendum settembrino sul taglio dei parlamentari, la madre di tutte le riforme populiste (pari all’impatto comunicazionale della già celebrata “eliminazione della povertà” con il decreto Dignità), ed è oggettivo che tra il vertice grillino dell’Inps, che ha reso nota la faccenda dopo averla custodita per tre mesi, e lo stato maggiore del Movimento Cinque Stelle che ha fatto da immediata grancassa alla faccenda ci sia stata (organizzata o casuale che sia stata) una convergenza di obiettivi. Il secondo motivo risiede nell’altrettanto oggettiva contraddizione di un sistema di media debole e incerto che, persino in chi avverte l’effettiva portata dell’episodio e ne scrive, ma poi non fa altro che rimpallarlo e amplificarlo, quasi non fidandosi del proprio giudizio oppure temendo di esporsi al rischio di non secondare il populismo. 

 

Quindi, distinguiamo: pubblico ludibrio e damnatio politica per i furbetti di cui evitiamo persino di fare i nomi visto che sono noti, ma ragioniamo con freddezza sulla deriva antiparlamentare del populismo al potere, e anche all’opposizione, sapendo che se buttiamo via con l’acqua sporca di alcuni deputati fessi o incapaci il bambino della democrazia parlamentare poi non ci potremo lamentare se saremo alla mercé di leader per caso (di destra, sinistra o di centro non importa) che ci governeranno solo in base ai sondaggi e alla ricerca del consenso personale. Se ci va bene.

 

Quando, a metà degli anni ‘80 del secolo scorso, l’Italia sorpassò l’Inghilterra come prodotto interno lordo e divenne la quinta potenza industriale del mondo aveva anche un Parlamento forte, mentre la guida del governo veniva giocata sullo scontro e l’alternanza tra due leader, Craxi e De Mita, ai quali poi il destino personale avrebbe riservato esiti diversi: il primo scomparso in Tunisia da ricercato/esule (a seconda delle diverse letture della storia), il secondo tornato nella sua Irpinia dove è tuttora il sindaco ultranovantenne di Nusco, a testimonianza di una passione politica senza tempo. Cosa significa Parlamento forte? Poche cose ma precise: si diventava deputati e senatori al culmine di un cursus honorum nelle istituzioni, magari dopo essere stati sindaci di una città medio grande, amministratori regionali, comunque esponenti di associazioni, sindacati o professioni. Non ci si improvvisava, e uno non valeva uno. Dopo una o più legislature ci si poteva mettere in fila per entrare nel governo, come sottosegretari in rappresentanza del proprio territorio oltreché del proprio partito o della corrente interna di appartenenza. Anche qui un percorso e una logica riconosciuta. In secondo luogo, Camera e Senato esercitavano molto più di oggi la propria funzione di controllo, le commissioni erano spesso le forche caudine dove il governo temeva di passare ma anche il terreno privilegiato degli accordi tra Pci e Dc sui temi di interesse generale, le interrogazioni erano uno strumento molto usato su temi di rilevanza politica, economica e territoriale cui i ministri non potevano sottrarsi. Certo, c’era anche un sistema misto nell’economia, per cui la Commissione Bicamerale sulle partecipazioni statali doveva approvare i piani di investimenti di Iri, Eni ed Efim (decine di migliaia di miliardi) e quindi di fatto era il riequilibratore del potere dei cosiddetti boiardi di Stato, e c’era una logica anche qui perché, ad esempio, il presidente della commissione era socialista quando il capo dell’Iri era il democristiano Romano Prodi. E intanto le Commissioni Bilancio, in particolare quella della Camera, passavano al pettine fitto le prime leggi finanziarie e si permettevano anche di convocare e di tenere quasi alla sbarra per tre ore Enrico Cuccia, capo di Mediobanca e discreto quanto potente regolatore del capitalismo privato con la raccolta delle banche pubbliche. Tanti giornalisti politici che frequentavano Montecitorio non lo conoscevano, ma la Commissione sì.

 

La fine della Prima Repubblica, le promesse mancate della Seconda, le polemiche sulla casta e la disaffezione della borghesia professionale e non per l’impegno politico hanno portato alla situazione attuale. In pratica, chi negli ultimi tre decenni aveva un lavoro riconosciuto socialmente non ha più ritenuto di cambiarlo con la carriera politica, diventata nel frattempo più vulnerabile dalla magistratura e meno socialmente apprezzata, anzi apertamente contestata. Di qui, l’uno vale uno, il Parlamento da aprire come una scatola di tonno e i 600 euro incassati all’insaputa di se stessi e del proprio ruolo. Quindi, nessuno può prendersela con nessuno e a Roma Virginia Raggi al ballottaggio l’ha scelta il 70 per cento dei votanti: ora si ricandida e non resta che sperare sulla qualità di chi la contrasterà, ma non c’è da illudersi. Questo per dire che il grillismo demolitorio al potere e il sovranismo imbelle all’opposizione innaturalmente uniti nel si al taglio hanno oggi in Parlamento una rappresentanza che non c’è più nel Paese che cerca di scrollarsi dal Covid. Per la maggioranza il referendum sul taglio dei parlamentari è solo la prova di forza per restare al governo e provare a risalire la china del consenso, al di là del contenuto su cui saremo chiamati a votare. Per l’opposizione un inutile se non masochistico suicidio.


Quattro anni fa Matteo Renzi perse rovinosamente il referendum che doveva consacrarlo al potere. Nel quesito bocciato dal 60 per cento dagli italiani c’erano cose buone e cose pessime, c’era il ritorno allo Stato di alcune competenze che le regioni usano male (magari sarebbe stato più chiaro chi doveva decidere le zone rosse nella pandemia), c’era il Senato ridotto a dépendance romana per amministratori locali magari inquisiti. C’era soprattutto il delirio di potere del “giglio magico”. La dimensione attuale del partito di Renzi, che pure ha mantenuto molti suoi uomini nelle aziende pubbliche, e le giravolte del leader danno l’idea del pericolo scampato e hanno giustamente permesso a Maria Elena Boschi le gioie di un amore da rotocalco invece dei noiosi impegni da aspirante statista. E’ facile che il referendum possa effettivamente tagliare i parlamentari se la pulsione demagogica continua, e deputati e senatori stanno facendo di tutto per dare ragione ai tagliatori. Già Seneca diceva che “non c’è cosa che per noi comporti mali peggiori del conformarsi all’opinione pubblica, considerando migliore quello che è accolto da più largo consenso. E siccome non ci mancano gli esempi, si finisce per vivere non secondo ragione ma imitando gli altri”. Parole da meditare, così come c’è da riflettere sull’inevitabilità della vittoria che sembrava accompagnare il referendum renziano, respinto non tanto nel merito quanto nel rifiuto di affidare a quel ristretto gruppo dirigente fiorentino le chiavi del Paese.


Oggi gli italiani sono distratti dal Covid e preoccupati o colpiti direttamente dalla crisi di interi settori dell’economia, servizi e turismo innanzitutto. E non c’è il leader credibile per capeggiare il fronte del no: avrebbe potuto farlo Francesco Cossiga, il quale sarebbe stato in grado con coraggio ed energia di metterci la faccia e di porre il Pd di fronte alle responsabilità della sua storia politica, magari ricordando ai suoi smarriti dirigenti attuali che un padre nobile del partito come Umberto Terracini aveva un’opinione molto netta: “quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre a limitarne il numero dei componenti”.


Giuseppe Conte non ha un compito facile, né può sposare l’una o l’altra tesi anche se non potrà che vedere con benevolenza la vittoria della maggioranza che lo sostiene, con il Pd appena più ritroso sulla materia ma incapace di scegliere una propria strada. Crediamo che il premier possa e debba restare neutrale, concentrando il lavoro del governo sui progetti da presentare in Europa e sul sostegno all’economia oltre la stagione dei bonus, con un discorso responsabile sulle difficoltà da affrontare poiché, settimana in più o in meno, il blocco dei licenziamenti e l’erogazione della Cassa integrazione non potranno essere mantenuti, nemmeno su un castello di debiti. Gli italiani lo sanno, hanno risorse e coraggio a patto che la realtà venga esposta per quella che è, e senza tunnel sotto lo Stretto quando giustamente ai già dimenticati Stati Generali il premier aveva correttamente dato come priorità quella della estensione al Sud dell’Alta velocità ferroviaria. Ci permettiamo anche di suggerirgli un’attenzione non formale al Parlamento, che sia quello disegnato dai Costituenti o quello che rischia di essere tagliato dai populisti, sulla quale il premier ha già dato segnali di incamminarsi dopo la stagione del lockdown. Aiuterebbe indirettamente il Paese a non scambiare il dito di tre furbetti del parlamentino con la luna della democrazia parlamentare, che è una cosa seria da tutelare innanzitutto con i comportamenti di chi ha maggiori responsabilità istituzionali.

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